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Pizza bruciata. Acrilammide. Quando la salute è a rischio e tutti lo ignorano.

Qualche giorno fa sono andato insieme a due amici in una nuova pizzeria, molto reclamizzata, ubicata in una cittadina vicina alla mia.
Un bellissimo locale appena ristrutturato. Abbiamo chiesto tre pizze e ce le hanno portate con i bordi bruciacchiati.
D’istinto, forse per deformazione professionale, ho alzato con la forchetta la pizza e ho visto il fondo bruciato, quasi carbonizzato. I miei amici hanno fatto altrettanto riscontrando lo stesso problema.

Le abbiamo rimandate indietro chiedendo di riaverle non bruciate. Dopo pochi minuti sono arrivate tre nuove pizze, con i bordi dorati ma non bruciati. Le abbiamo sollevate nuovamente dal piatto e anche queste avevano il fondo nero, parecchio bruciato.
In sintesi il pizzaiolo, probabilmente per fare prima, le infornava senza pulire il fondo del forno e teneva una temperatura alta per cuocerle prima. Abbiamo mangiato il mangiabile, abbiamo pagato e sicuramente quell’attività non ci avrà più come clienti e avrà da noi una pubblicità non lusinghiera.

Purtroppo ho potuto appurare che situazioni del genere, ovvero la somministrazione di pizze bruciate, sono diventate una costante di tante pizzerie dove la salute del cliente passa in secondo piano.
Il problema è l’acrilammide, una sostanza pericolosa e cancerogena, definita dall’EFSA: “motivo di preoccupazione della salute pubblica”.

Di recente gli esperti del gruppo scientifico dell’EFSA sui contaminanti nella catena alimentare (CONTAM) hanno ribadito le loro precedenti valutazioni in base alle quali l’acrilammide presente negli alimenti può aumentare il rischio di sviluppare il cancro nei consumatori per tutte le fasce d’età.
Le prove ricavate da studi su animali mostrano che l’acrilammide e il suo metabolita, la glicidammide, sono genotossiche e cancerogene: danneggiano cioè il DNA e provocano il cancro. Poiché l’acrilammide è presente in un’ampia gamma di alimenti comuni, l’allarme per la salute vale per tutti i consumatori, ma è l’infanzia la fascia di età più esposta, sulla base del peso corporeo.

I più importanti gruppi di alimenti che contribuiscono all’esposizione all’acrilammide sono i prodotti fritti a base di patate, il caffè, i biscotti, i cracker, i pani croccanti, il pane morbido e …la pizza.
Addirittura sembrerebbe che la pizza “bruciacchiata” sia seconda solo alle patate fritte per contenuto di acrilammide!
Un pericolo reale per i giovani che se ne cibano molte volte durante la settimana, per non parlare delle famiglie che ormai per abitudine la consumano il fine settimana.
E’ un pericolo reale, concreto e ignorato da tutti!
Le stesse autorità addette ai controlli, Nas e tecnici della prevenzione delle ASL, ignorano il problema, forse perché il nostro legislatore non ha ancora varato una legge specifica corredata da sanzioni pecuniarie.
Attualmente l’unico modo per sanzionare chi somministra una pizza bruciata, pericolosa per la salute, è quello di applicare l’art. 5 della L. 283/62. In pratica il pizzaiolo finisce davanti al Giudice!

Essendo l’argomento abbastanza complesso, ho chiesto consulenza ad alcuni esperti (tecnici della prevenzione e tecnologi alimentari) per fare il punto della situazione, per vedere se esistono studi recenti e prove scientifiche sulla reale pericolosità dell’acrilammide presente nella pizza.
Di seguito potete leggere quanto è venuto fuori dalla ricerca. Possiamo definire le righe che seguono “lo stato dell’arte della problematica acrilammide-pizza”.

“Nell’ultimo Report EFSA 2015 di 320 pagine, l’Ente Europeo per la Sicurezza Alimentare ha espresso un parere sull’acrilammide, sostanza non volatile che si sviluppa in particolari situazioni come esposizioni professionale, fumo, acqua e dal 2002 negli alimenti.
Nel settore food si fa particolare riferimento a matrici alimentari ricche di zuccheri riducenti e asparagina; si sviluppa durante le reazioni di Maillard in cottura (qualsiasi forma di cottura sviluppa acrilammide negli alimenti ma in dosi espresse in µg/Kg molto differenti), dall’acroleina, dai lipidi, dal glutine, ecc.

Al Report EFSA fa riferimento il Reg UE 2158/17 che mostra un’evidente ed encomiabile attenzione della comunità europea a tale presunto pericolo, ma nello stesso tempo l’inapplicabilità in più punti della filiera del settore dell’arte bianca del citato regolamento.
In primis come fa un OSA ad accertarsi che siano state applicate le buone pratiche agronomiche se la maggior parte dei frumenti sul territorio sono d’importazione?
Come fa a controllare che i trattamenti agronomici sul terreno siano stati tali da garantire un tenore di zolfo equilibrato e la corretta applicazione di azoto?

In secundis, se effettivamente lo IARC negli anni ’90 ha inserito l’acrilammide (cosi come il carbone vegetale E153) nel gruppo 2A probabili cancerogeni, allora perché sono stati esclusi dal Regolamento comunitario alimenti come la pizza (cibo nazional popolare per tutte le tasche e tutte le età, adolescenti e bambini compresi) che ha la stessa matrice del pane che, invece, è sempre inserito nei riferimenti legislativi europei?

Perché sono esonerati dall’obbligo di campionare e analizzare la loro produzione per accertare la presenza di acrilammide alcuni OSA, cioè quelli che svolgono attività di vendita al dettaglio e/o riforniscono direttamente solo esercizi locali di vendita al dettaglio? Perché sono state escluse alcune tipologie di alimenti (carne, pesce, ecc.) e tecniche di cottura (brace, arrosto, ecc.), che mostrano sempre evidenti bruciature sul prodotto?

Perché il Report EFSA 2015 riporta come limite di riferimento di acrilammide (µg/Kg) nella pizza, un valore estremamente confrontabile con quello del riso bollito? Perché nel pane si fa riferimento a valori che risalgono al Report EFSA 2015, il quale a sua volta fa riferimento a uno studio eseguito nel 2006 in Svezia su fette di pancarrè tostato nel tostapane casalingo (1)?

L’estrema variabilità dei dati nella letteratura scientifica sui valori di acrilammide nel pane mostra però evidenze scientifiche legate al fatto che matrici come farina di segale, avena, frumento integrale, farro mostrano valori notevolmente superiori allo sfarinato di frumento evidenziando non solo differenze importanti legate al tipo di cereale impiegato, alla cultivar, ecc., ma al fatto che l’asparagina si concentra maggiormente nella crusca e nel germe.

La variabilità dei dati, la limitata casistica internazionale sul prodotto pane e i campioni non conformi alla reale situazione pratica artigianale del settore non possono essere presi come riferimento sul territorio italiano in funzione soprattutto della millenaria tradizione italiana di panificazione, dei prodotti DOP e IGP. Si ricorda inoltre che i valori sono livelli di riferimento non limiti di legge e pertanto non sono previsti attualmente verbali e/o sequestri né obblighi di dichiarazioni in etichetta.

Inoltre, in funzione dell’immensa e specifica bibliografia scientifica relativa a ogni specifica fase processo, dalle materie prime alla conservazione del pane, si ribadisce e sottolinea come le buone pratiche di produzione in panificazione e il rispetto della Legge 580/67, contribuiscano a ridurre la dose di acrilammide sul pane; per i panificatori il “rischio acrilammide” è solo un CP e non un CCP (*) come per i pizzaioli.

Per quanto riguarda la pizza invece, questa è citata nello scenario europeo (2) come alimento che presenta valori base confrontabili a quelli del riso bollito (3) e gli attuali studi non sono assolutamente confrontabili né come livelli di riferimento, né come matrice analizzata né come tecniche di cottura (tipologia di forno e temperatura raggiunta) alla reale situazione, offerta quotidianamente nelle pizzerie artigianali.

Attualmente, solo l’attualissimo studio effettuato presso l’Università di Perugia (4) mostra valori che identificano presumibilmente sia la reale matrice sia la situazione quotidiana di una produzione artigianale tipica delle pizzerie.

La situazione che si verifica quotidianamente nei locali, che porta quindi a considerare il rischio acrilammide come elevato e la cottura, un CCP (vedi note 2), è legata al fatto che, la maggior parte dei pizzaioli, cuociono all’interno dei forni a legna, a temperature maggiori di 350°C, senza pulire il forno dai residui di farina, in presenza di fiamma, in assenza di vapore e servono (non tutti chiaramente!), con estrema non curanza, prodotti “bruciati” sia sopra ma soprattutto sotto (Disciplinare STG, la cottura avviene a 430° C per la platea e a 485° C per la volta nei forni a legna).

La pizza artigianale, non essendo mai citata nella normativa nazionale e internazionale, fa del settore, un’immensa fucina di frodi in commercio: utilizzo di claim vietatissimi come “senza lievito”, (5) “senza lievito aggiunto”, ecc.  utilizzo di additivi coloranti vietati come E153 con impunite e plateali sofisticazioni alimentari (6), frodi contro la salute (pratica di lavorazione relativa alla Wild Water Yeast o fermentazioni spontanee casuali da matrici vegetali, frutta, ecc. conservate in qualsiasi bottiglietta artigianale, senza controllo igienico, etichettatura, ecc. (7)), prodotti bruciati, serviti con non curanza, non conoscenza del Reg Ue 852/2004, ecc.

Si rende pertanto necessario un’approfondita e specifica formazione di tutto il personale: OSA nelle pizzerie (dipendenti e titolari), ispettori e personale (Asl, Ispettori Sanitari Ministeriali, Tecnici della Prevenzione, Nas, Carabinieri Forestali, GdF, Polizia Municipale, Guardia Costiera ecc.) oltre a sollecitare maggiori e più frequenti controlli in questi esercizi commerciali come nelle altre realtà.

Si ricorda agli OSA (per fortuna non tutti!) che nonostante la pizza non sia citata nel Reg UE 2158/17, Reg UE 1333/2008, Reg UE 1169/2011, ecc., non li esonera assolutamente né dalla non conoscenza delle norme né dai verbali né li autorizza a somministrare al consumatore un prodotto con evidenti bruciature punibili comunque in virtù dell’art. 5 della Legge 283/62, Reg.UE 852/2004, art. 7 Reg.Ce 178/02 ecc.

Note:

Claim in violazione di : Art. 8 DPR 502/98, Art. 14 – 16 Legge 580/67, Art. 20 – 21 DL 206/05, Art. 2 – 3 DL 145/07, premessa 16, art.3, art. 4, art.7 comma b, art. 36 comma 2 par. a  Reg. UE 1169/2011. (discipline sanzionatori D.Lgs 231/17), Reg CE 1924/2006, Art. 439 – 444 e seg. C.P.

  • SOFISTICAZIONE ALIMENTARE (frode alimentare. Operazione che consiste nell’aggiungere all’alimento sostanze estranee che ne alterano l’essenza, corrompendo o viziando la composizione naturale e simulandone la genuinità…) PUBBLICITA’ INGANNEVOLE (art. 2 comma b, 3 comma 1 sotto comma a e b DL 145/2007) PRATICHE COMMERCIALI INGANNEVOLI (art. 20 comma 2, art. 21 DL 206/2005 Codice del Consumo) ecc. Lo IARC ha catalogato il carbone vegetale E153 , come l’acrilammide, nel Gruppo 2B dei prodotti cancerogeni e FDA Americana non lo permette. Tab. 2 Reg. UE 1129/2011 che modifica l’allegato II del Reg. CE 1333/2008. Guidance document describing the foood categories in Part E of Annex II to Regulation (EC) n. 1333/2008 on Food Additives.  Legge 283/1962 art. 5 (norma penale).lettera “a”a) private anche in parte dei propri elementi nutritivi o mescolate a sostanze di qualità inferiore o comunque trattate in modo da variarne la composizione naturale, salvo quanto disposto da leggi e regolamenti speciali; lettera “g” g) con aggiunta di additivi chimici di qualsiasi natura non autorizzati con decreto del Ministro per la sanità o, nel caso che siano stati autorizzati, senza l’osservanza delle norme prescritte per il loro impiego. I decreti di autorizzazione sono soggetti a revisioni annuali; Reg. Ce n. 178/2002 art. 7 «Principio di precauzione» 1. Qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio”
  • Violazione Reg. UE 852/2004, oltre a 8, DPR 502/98, Art. 14 – 16 Legge 580/67, Art. 20 – 21 DL 206/05, Art. 2 – 3 DL 145/07, premessa 16, art.3, art. 4, art.7 comma b, art. 36 comma 2 par. a Reg. UE 1169/2011. (discipline sanzionatori D.Lgs 231/17), Reg CE 1924/2006, Art. 439 – 444 e seg. C.P.”

(*)
CCP= “Critical Control Point” o “Punto Critico di Controllo” rappresenta una fase della lavorazione o una procedura, particolarmente critico nel quale è possibile intervenire applicando un controllo per prevenire, eliminare o ridurre ad un livello accettabile uno o più pericoli al fine di minimizzare il rischio e che la perdita di controllo di tale pericolo potrebbe generare un rischio incettabile per la sicurezza alimentare.
-Per ogni CCP si devono poi definire i limiti critici, le azioni correttive e le attività di monitoraggio.
-I CCP possono comprendere procedure particolari di sanificazione,cottura,refrigerazione, prevenzione della contaminazione crociata
-per ogni CCP si devono stabilire dei limiti critici con un sistema di monitoraggio, cioè di rilevazione,di osservazione mediante parametri e grandezze specifiche e facilmente misurabili (Esempio termometro per la rilevazione della temperatura);
-un punto critico di controllo può essere ad esempio un processo termico specifico associato ad un binomio tempo/temperatura al fine di abbattere determinati patogeni; altri ccp legati alla temperatura possono essere la refrigerazione, il range di ph di un determinato alimento al fine di prevenire determinate tossine.
-potrà sembrare paradossale, ma un piano HACCP veramente implementato e funzionate ha un numero limitato di CCP

CP: “Control Point” o “Punto critico” differisce da un CCP in quanto è definito come un qualsiasi punto, passo o procedura durante la lavorazione e manipolazione di un alimento durante i quali possono essere verificati fattori biologici,fisici o chimici e non prevede un controllo critico.
-non è obbligatorio documentare per iscritto i (CP) o Punti di controllo e si può fare riferimento alle semplici BPI “Norme di Buona Prassi Igienica”; non necessitano quindi di registrazioni e rilevazioni

Una considerazione

Il parere che avete appena letto è l’opinione di esperti che da anni studiano e lavorano nel settore.
Già nel 2007 il progetto Europeo Heatox Project (Heat-Generated Food Toxicants: Identification, Characterization, and Risk Minimization) ha certificato che “l’acrilamide espone al rischio di cancro gli esseri umani”. Forse un singolo pezzo di pizza bruciata non vi ucciderà all’istante ma ricordate che lo state sommando ad altri elementi bruciati che avete ingerito negli anni.
Il pericolo, infatti, è questo!
Ippocrate, Paracelso e l’Antica scuola medica salernitana sostenevano che: “Noi siamo quello che mangiamo”.
I mezzi per risolvere il problema ci sono, manca solo la volontà di chi forma i pizzaioli e, soprattutto, di chi controlla.
Servire una pizza non bruciata è possibile visto che lo stesso disciplinare della Pizza Napoletana, presentato a Bruxelles per ottenere la denominazione di marchio collettivo, prevede che:

“Il pizzaiolo deve controllare la cottura della pizza sollevandone un lembo, con l’aiuto di una pala metallica e ruotando la pizza verso il fuoco, utilizzando sempre la stessa zona di platea iniziale per evitare che la pizza possa bruciarsi a causa di due differenti temperature. È importante che la pizza venga cotta in maniera uniforme su tutta la sua circonferenza”.

Piero Nuciari

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